Spesso mi accorgo di vive- re. Me ne accorgo con la per- cezione degli anni che se ne vanno, degli anni per- duti.
Don Umberto D'Aquino nacque a Capua, in Via Camillo
Pellegrino, il 21 maggio 1923 da Emma De Maio ed Umberto D’Aquino. Al
padre, sottufficiale dell’esercito, il destino negò la gioia di questo
lieto evento in quanto, nel febbraio dello stesso anno, per una forma,
oggi banalissima, di tifo era morto in Napoli.
Donna Emma, descritta come donna bellissima nonché decisa e fiera,
affrontò la vedovanza con dignità e coraggio fino a quando la sua
strada incrociò quella di don Gaetano Grimaldi, noto bar-biere
capuano.Don Gaetano, a dispetto del suo fisico, aveva fama di
grande seduttore e quella giovane vedova di tanta bellezza e fattezze
lo colpì. Don Gaetano, però, cascò male! La signora Emma gli fece
comprendere, ben presto, che
con lei non si scherzava e, fu così, che nel luglio del 1924, quando
Umberto aveva 16 mesi, i due sposarono.
Dalla loro unione nacquero quattro figli (Sisina, Nunziatina, Gianni
ed Immacolata) ma il primogenito, in tutto e per tutto, era Umberto.
Gaetanino lo amò e si occupò di lui come fosse figlio suo ed Umberto
ricambiò con lo stesso amore e rispetto.
Nel frattempo la famiglia s’era trasferita in Via F. Granata, vale a
dire, a quattro passi dal Duomo di Capua.
La giovinezza di Don Umberto fu la medesima di tanti altri suoi
coetanei costretti a vivere tra gli stenti e le privazioni imposte da
quell’epoca. Raccontano che egli riuscisse a sopportare meglio degli
altri certi disagi, forse erano già i segni della sua fede, ma la fame
la soffriva come e più degli altri. Diceva che soddisfare la propria
fame era impresa ardua in quanto in lui ne esistevano due tipi: la
fame prossima più facile a placare e quella remota, in pratica,
inappagabile. E, a proposito di fame, si divertiva a raccontare un
episodio accadutogli nei primi periodi del suo ministero. Era ospite
di un suo compagno di Università in una Canonica del napoletano e,
all’ora della cena, l’amico portò in tavola, sistemandola proprio
davanti a don Umberto, un’insalatiera colma di polipi “affogati”.
Neppure il tempo di sedersi ed il prete, chiamato in Canonica, chiese
d’essere scusato e si allontanò. Senza pensarci su due volte, don
Umberto iniziò la sua cena e, credendo che quel ben di Dio
rappresentasse la sua porzione, mangiò tutto. Al ritorno l’amico,
vedendo l’insalatiera vuota, rimase sbalordito e confuso visto che,
come informò don Umberto, quello che aveva mangiato costituiva la cena
per 16 persone.
Era solito dire di non conoscere i motivi per cui si era fatto prete
sol perché quella fissazione l'aveva avuta da sempre. Pare, inoltre,
che da piccolo fosse molto discolo e la madre gliele dava sempre di
santa ragione.
A undici anni entrò in Seminario, dopo di aver ottenuto una riduzione
sulla retta: pagava 90 lire al mese anziché 150.
Ultimò gli studi ginnasiali al Seminario di Capua e quelli liceali
presso il Seminario Regionale di Benevento. Proseguì poi presso la
Pontificia Facoltà Teologica S. Luigi di Napoli dove si laureò in
teologia discutendo una tesi su: "Il concetto di mistero secondo S.
Tommaso d’Aquino".Ordinato Sacerdote il 14 luglio 1946, don Umberto
impiegò i suoi trentasei anni di ministero, in un impegno totale e
costante, senza risparmi di entusiasmo, energie e sacrificio onde
essere sempre all’altezza della sua nobilissima missione.
Fu cappellano dell'ospedale Ferdinando Palasciano, parroco della
Chiesa della Carità, come lo fu della Chiesa del Sacro Cuore da lui
fondata, e, quindi, fino all'ultimo respiro, della Cattedrale. E del
capitolo della Cattedrale fu, dal 1963, canonico. Si prodigò
nell'assistenza spirituale a gruppi ed associazioni quali l'Azione
Cattolica, lo Scoutismo, le Dame della carita.Si rivolgeva ai giovani in modo semplice, energico, a
volte brusco, ma chi l’ascoltava rimaneva colpito in quanto
ri-conosceva sempre se stesso in quello che don Umberto diceva. Così
salutava gli scout impegnati, nel 1982, in un S. Giorgio:
“Se vuoi essere qualcuno devi domandare molto a te stesso. In un'epoca
così permissiva domandare molto a se stessi fa male. Ma tutto quello
che vale molto è giusto che costi molto. E nulla oggi soprattutto vale
quanto un uomo che sappia quello che vuole e che voglia quello che Dio
vuole. E questo che la Comunità dei figli di Dio aspetta da te.
Lo Spirito Santo dice che per far questo ti basta la Sua grazia. Io ti
dico che per ottenere la Sua grazia è necessario la preghiera. Prega.
Abbi dimestichezza con Dio. Sceglilo. E l'unico amico del quale ti
puoi fidare e al quale puoi dire tutto senza paure.
Perché questo trapianto del cuore avvenga senza rigetti hai bisogno di
un sostegno: Maria. Credi a Lei. Don Umberto”. (Da “ Don Umberto un
prete così” di don Peppino Centore)
Profuse i tesori della sua profonda dottrina umanistica e teologica
non solo nell'esercizio di una oratoria sacra, forbita e affascinante,
ma nell'insegnamento della religione negli Istituti Scolastici Statali
(insegnò alla Scuola Media “Ettore Fieramosca” e all’Istituto
Magistrale “Salvatore Pizzi”) e nel Seminario di Capua di cui fu
prestigioso Rettore ed efficace docente di lettere. Con zelo
instancabile, e lungo tutto l'arco del suo fervido apostolato,
promosse soprattutto il Culto dell'Immacolata Concezione in
onore della quale inaugurò una processione cittadina, che, tuttora, si
svolge all'alba dell'8 dicembre di ogni anno, così come, ogni anno,
guidò pellegrinaggi sempre più affollati a Lourdes, nel luogo dove la
Vergine apparve a Bernadette.
Nel suo libro “La giornata comincia la sera”, pubblicato nel 1979 e
che rappresenta il suo testamento spirituale, con il suo
inconfondibile stile, racconta uno dei tanti episodi avvenuti in quei
viaggi:
Pasqualino era un quintale di carne flaccida e sonnolenta, due gambe
immobili e un sorriso perenne, poco convincente. Era venuto a Lourdes
con noi e diceva che avrebbe avuto la grazia. Quando tornammo, lungo
il viaggio il sorriso scomparve e gli occhi guardavano lontano. Una
ragazza credette di capire il perché della innegabile tristezza. Gli
disse: “Pasqualino, lo sai che la Madonna le grazie, le fa pure a
casa?”
Il sorriso ebete dei giorni avanti diventò un lampo cattivo nei suoi occhi. Tradì il suo sgomento
davanti a chi aveva osato. Poi fu un attimo si rabbonì. Disse con
apparente distacco: “Signorina, lo sapete che non ho domandato nulla a
nessuno? “
La ragazza credette di raccogliere una bestemmia: “E allora che sei
venuto a fare?”
Il sorriso del giovane si fece ebete come quello di sempre e gli occhi
guardarono ancora una volta nel vuoto. “Sapete, disse, ho visto tante
tristezze attorno a me e ho detto: Madonna mia, se devi fare qualcosa,
fallo a questi e non a me. lo m'arrangio”.
Qualche anno dopo dissi questo episodio da un pulpitino di una chiesa
della periferia di Napoli. Alla fine della predica trovai ad
aspettarmi un vecchietto dagli occhi lucidi. Era il padre del nostro
amico. Domandai di lui. Mi disse che s'arrangiava ancora.
L'altra "devozione" che s'applicò a diffondere con appassionata e
convinta dedizione, fu quella per il Sacro Cuore: al Sacro Cuore, la
cui statua volle eretta sulla Riviera Casilino, egli consacrò la città
di Capua nel 1955.
Aveva un culto appassionato e strenuo per le memorie storiche e le
tradizioni civiche e religiose della sua città natale e la
testimonianza più valida di ciò è rappresentata dalla pubblicazione di
saggi, interventi, articoli volti a revocare ed illustrare aspetti e
momenti di quella “civitas capuana” di cui si sentiva fiero cultore e
figlio devoto. Fra i suoi lavori sono da ricordare: “Particolari
aspetti del "Mille Capuano ", “Antiaraldica di fine 600”, “Le origini
della Diocesi di Capua”, “La cattedrale di Capua”.
Per ciò che concerne la sua persona egli esercitava, su quanti si
onoravano della sua presenza e della sua parola, una seduzione
cattivante e seducente.
In più, la sua calda e suadente voce baritonale che passava con
uguale, naturale, bravura da una nenia natalizia ad un canto di
montagna, da un brano liturgico ad una melodia del passato sapeva
suscitare negli animi una forte suggestione.Era dotato, dunque, di una straordinaria voce e di
ottima tonalità canora tanto che le parrocchie limitrofi, e non solo,
se lo contendevano per le loro Messe cantate.
Il fratello Gianni racconta che una volta, ancora studente a
Posillipo, partecipò, con il coro del Seminario, ad una Messa cantata
dal famoso tenore Beniamino Gigli. Il maestro del tenore notò la bella
voce di Umberto ed apprezzò le sue virtù a tal punto che lo invitò a
seguirlo per una sicura e gloriosa carriera artistica; la condizione,
però, era quella di abbandonare l’abito talare e, pertanto, non se ne
fece nulla.
Don Umberto era, in sostanza, un uomo semplice che amava la gente cui,
con i suoi discorsi, cercava di portare la grandezza e la misericordia
di Dio. Comunque era sempre disponibile anche a raccontare aneddoti ed
episodi che lo avevano visto protagonista.
Amante della fotografia e sempre alla ricerca di nuovi apparecchi, era
solito recarsi alla Duchesca per fare compere di materiale fotografico. Una volta
vide Gigino, “il suo venditore di fiducia”, dannarsi davanti ad un
foglio di carta; doveva scrivere la richiesta di Grazia per il
fratello e non ci riusciva. Don Umberto si offrì di aiutarlo e gli
scrisse la lettera. Il caso volle che l’istanza fu accettata ed il
fratello di Gigino fu liberato: da allora don Umberto, per quelle
persone, diventò un autorità al punto tale che cominciarono a
chiamarlo Arcivescovo.
Non meno divertente è l’episodio che raccontava a proposito di don
Giacomo Casertano, canonico della Cattedrale. Don Umberto aveva
comprato la macchina nuova: una Opel di colore blu. La mostrò a don
Giacomo e questi, guardando il veicolo con ammirazione, esclamò:
“Umbè, ce mise dento nu bellu cuorno?”. Don Umberto, stupito per
l’affermazione, gli rispose che proprio loro non potevano dare credito
a queste frottole ma don Gia-como, con estrema serietà replicò. “Umbè,
‘o saccio, nun è overo; ma si po’ è overo?”.
Nel 1970 donna Emma De Maio muore e per Umberto fu un grande dolore
che solo la forza della sua fede riuscì a lenire. Nel citato volume
“La giornata comincia la sera” così racconta quell’evento:
LA MORTE DELLA MAMMA
Mi sentivo ancora un bambino.
Solo ora che te ne sei andata,
mi sono accorto di essere quasi vecchio.
La stagione dei sogni è finita,
comincia un capitolo diverso,
duro, arido, freddo. L'ultimo.
Mai avevo toccato il fondo della solitudine,
nemmeno nei momenti in cui scomparvero tutti.
Oggi un essere solo se n'è andato
e il mondo è sembrato un deserto.
Otto maggio:
avevi sulla labbra l'orgoglio ridente della maternità,
sulla fronte l'umiltà sovrana per il figlio prete.
Grazie, Signore, per avermi dato la mamma. Questa
mamma buona e forte, tenera e sicura. Grazie per avermela conservata
fino ad oggi, maestra saggia e silente. Grazie per tutto quello che
mi hai dato per le sue mani. E grazie anche per avermela tolta; perché so che le
volevi bene e l'hai portata con Te, umile e povera, per farla ricca e
sovrana nella gloria che serbi ai semplici.
Signore, benedici quella donna che, quando mia madre spirò, corse per
vestirla. Poi prese la scopa in mano per apparecchiare tutta la casa,
per ricever quanti venivano a vedere la morta. Si usa così. E, quando
la ringraziai per quello che aveva fatto, mi ricordò che ventiquattro
anni prima, il giorno stesso della mia ordinazione sacerdotale, avevo
assistito anch'io una donna e poi avevo preso anch'io la scopa in
mano. E adesso lei veniva a rendermi quello che io avevo fatto per sua
madre. Benedici quella donna, Signore, per l'ottimismo che mi mise nel
cuore in quel momento di solitudine.
Nel 1971, il 24 luglio, celebrò il 25° anniversario del suo
sacerdozio. Sulla pagellina stampò questi suoi versi:
E adesso fermiamoci,
Gesù,
amico mio,
quel tanto che basti
a guardarci negli occhi
a stringerci al collo le braccia,
a poggiare sul petto tuo stanco
la mia giubilante stanchezza.
Domani riprenderemo la corsa,
dopo che mi avrai detto
che mi credi ancora
e che il male che ho fatto
non l’ho mai amato.
In questi versi si capisce bene l’intesa che c’era fra
il Signore e don Umberto; Egli era un amico con cui confidarsi per
ricevere buoni consigli. Molto toccante e di grande dolcezza è questa
annotazione di don Umberto, pubblicata nel libro di don Peppino
Centore “ Don Umberto un prete così”:
“Solitudine. Silenzio. Sempre. Ma questa volta con Dio. È veramente la
pace. Ma quanto sono rari questi momenti! Il motivo dominante della
mia vita è la malinconia, talvolta la collera. Sono come il gatto che
si aggroviglia in un gomitolo di spago. Che cosa più semplice di uno
spago. Eppure non riesco a prendere il bandolo. Vorrei prenderlo e mi
cruccia il non sapere di dove cominciare. Certo deve essere terribile
morire adesso, adesso che non sono ancora riuscito a prendere il
bandolo della mia vita e mi cullo sempre nella speranza più assurda,
quella del domani, come se ci dovesse essere un domani eterno.
Dammi una mano o mi colpirai quando meno me lo aspetto e forse non lo
merito perché in fondo ti voglio bene, mio Dio.
Fammi conoscere quello che non devo fare.
Fammi conoscere quello che vuoi da me.
Dammi la forza di troncare subito quello che ti dispiace e di
cominciare a vivere con rettitudine. Con te davanti al miei occhi.
Una cosa ho capito che tutto mi dà tristezza e noia. Mi trovo in pace
solo quando mi è possibile chiudermi la porta alle spalle e stare con
te. Riesco a sopportare persino i tuoi rimproveri che sono fatti con
una tenerezza indicibile.
Ma gli altri: li cerco e poi mi annoiano.
Moltiplica questi momenti, te ne prego. Sono trent'anni circa. E che
ti ho dato? Avevo sognato tanto. Un sogno! Eppure gli anni della
giovinezza sono passati. Adesso verranno quelli della malattia, degli
accertamenti, delle analisi, del diabete, della paura del cancro. Il
cancro! ho sempre pensato che quando sarà scoperta la cura del cancro
non è che gli uomini non morranno più. Morranno lo stesso ma senza la
sicurezza di una condanna ineluttabile. Sempre cosi: gli uomini non
amano le cose certe e vogliono morire dormendo. Quando verrà il Figlio
dell'Uomo troverà più fede sulla terra?
Nel 1979 pubblica “La giornata comincia la sera”, una straordinaria
raccolta di saggi spirituali. A giustificazione di questo titolo in
una nota del suo diario scriveva: “…troppo tardi ti ho amato. Questo
significa la giornata comincia la sera. E significa anche che la sera
del giorno è l'immagine e perciò l'ora e l'atmosfera più propizia per
farci pensare all'Essere, alla realtà delle cose, e mentre le voci
degli uomini e delle macchine tacciono, noi diventiamo più sensibili
alla voce di Dio che gode di levarsi nel silenzio”.
Innamorato, come già detto, della sua città, collabora alla
realizzazione di una singolare Via Crucis; le 14 stazioni, invece di
essere rappresentate mediante la tipica processione, vengono,
raffigurate in prossimità dei più importanti monumenti di Capua, da
quadri composti da giovani in costume che immobili ascoltano i
commenti scritti da don Umberto. Originale e piena del suo stile è la nota alla quarta
stazione, quando, cioè, incontra la madre:
Le comparse nane ad una ad una lasciano la scena. Solo i protagonista
restano: Cristo, gli uomini che gli tolgono la croce di dosso, la
Morte negli occhi atterriti delle donne piangenti, la Madre che ancora
geme per le doglie del parto.
Il mistero tutto umano di questa donna che ha generato da sola non è
la sua maternità verginale. È l'amore impensabile e il dolore
inesprimibile che questa maternità verginale ha acceso nella sua
carne.
Questa donna povera che Dio ha convinto che nessuno muore per sé solo,
ma ognuno muore per tutti è qui, presente agli ultimi atroci momenti
di chi muore per tutti. Ma chi muore per tutti è suo figlio, il figlio
come nessun altro, il figlio della sua carne vergine, amore e tormento
come nessun altro.
E Tu, o Cristo, che, anche affranto, predisponi tutti i momenti della
nostra e della Tua vita, perché hai voluto mostrarti a Tua Madre,
percosso da Dio, fatto peccato, obbrobrio degli uomini, ludibrio della
folla?
Capisco che l'unica persona che è stata ammessa nel Santuario della
Tua divina solitudine è stata lei. Sola! Ma adesso perché è qui? È un
conforto o piuttosto l'ultimo grido del Tuo lamento?
O dobbiamo pensare che Dio stesso l'ha voluta qui per dire la verità
su questo crimine necessario?La sua presenza sul Calvario è un verdetto che nessuno
ha saputo pronunziare. Pilato ha pensato a un paranoico. Caifa a un
seduttore. Erode a un prestigiatore giù di corda. Pietro e gli altri a
un amico potente una volta, ma ora riprovato e senza avve-nire. Non
resta più nessuno.
Tranne due: Maria, la madre, e Giuda, il traditore. Questi soltanto
hanno capito e hanno pronunciato il verdetto giusto. E davanti a una
umanità di ciechi che crocifigge il Santo, vanno verso il suicidio
entrambi, ciascuno a suo modo, ma tutti e due per dire che Egli è il
Santo di Dio.
Siamo nel 1981 e si avvicina il terribile 1982. Quest’anno è, infatti,
funestato dalla morte del padre, della sorella e dello stesso don
Umberto.
Quando muore Don Gaetanino don Umberto pronunciò queste parole:
“Non posso fare il panegirico di mio padre, di quest'uomo che mi amò
con un amore sostitutivo e perciò umile, nascosto ma tenace e
profondissimo. Debbo anzitutto qui confessare la mia fede e quella dei
miei familiari nella resurrezione. E pregare con tutta la Chiesa. Devo
esprimere il ringraziamento a Dio per averci dato un padre che ci ha
insegnato la santità del lavoro. E qui l'esempio che egli ha dato di
attaccamento al lavoro è noto a tutti. Ringraziarlo altresì di
avercelo conservato fino alla sua ormai veneranda età sempre giovanile
e infaticabile.
E oggi che il sogno di quest'uomo che a ottantatré anni va in
bicicletta a lavorare come un giovane è finito, devo ringraziare voi,
amici, che lo avete sempre sostenuto con la vostra simpatia e
ammirazione. Simpatia e ammirazione che gli avete tributato fino a
questo momento.
E infine ringrazio lui per quello che a noi figli ha dato.
Dimenticavamo ed egli ci ricordava. Non sempre ci riusciva a calarci
nelle necessità del prossimo ed egli lo faceva per noi. Non sempre ci
riusciva a sorridere agli altri ed egli lo faceva per noi.
E per questo ci ha lasciato una grande eredità, la più preziosa di
tutte, non è danaro: è la vostra simpatia e stima, della cui prova
oggi tutti noi vi ringraziamo”.
Sulla pagellina fece stampare questi versi:
A te
piccolo grande uomo,
mai vecchio,
per settant'anni maestro di bottega
e di gioia,
la nostra riconoscenza
e la ricompensa eterna
del sorriso di Dio
Alla sorella Immacolata fu diagnosticato un tumore e
per Don Umberto iniziò un periodo di grande tormento, di immensa
tristezza e di un profondo turbamento spirituale.
La causa e l'inizio di questa fase, che precipitò poi con intensità e
acutezza crescente fino al suo epilogo fatale, sono racchiusi in
questo suo frammento di lettera:
“Mia sorella ha avuto un tumore allo stomaco ed è stata operata a Roma
alla IV clinica universitaria dal Prof. Fegiz, non che l'intervento
abbia chiuso la dolorosa vicenda. È sempre una spada di Damocle che
pende per un periodo indefinibile. Pensi che ha due bambini, la prima
di tre anni e mezzo e un maschietto che inaspriscono la tragedia”.
È attanagliato in sensazioni di smarrimento, di inquietudine, di
vuoto, di abbandonata solitudine che spingono don Umberto a scrivere
questi versi:
Giornate fatte di nulla
senza afrore di piaghe esangui
senza il sorriso di chi ti butta al riposo
perché sei ormai un relitto.
Giornate fatte di noia
senza un Cristo da sfamare
senza neve che ti spacca la pelle
senza sole che ti prostra.
Giornate fatte di brume :
senza nessuno che s'accorga di te
senza nessuno che ti odi o ti ami
neppure tu stesso.
Giornate vuote, persino di vane speranze :
senza il dolore di un commiato :
senza il ritorno di un figlio prodigo
senza il sorriso di un bimbo protetto.
Corro nel buio come stella cadente che
sprizza luce, l'ultima luce,
ma rischiara nessuno
inconsistente polvere di fuoco.
Corri, corri nel buio,
luce cara a me solo.
Porta l'ultimo guizzo di Dio
sul lago di Gomorra
a questa selva di statue di sale.
A conclusione aggiungeva: “Queste parole non so se le
ho sentite, lette o pensate. Non so se sono mie o degli altri. Forse
sono di tutti quelli che muoiono di sete”. (Da “ Don
Umberto un prete così” di don Peppino Centore)
Nessuno saprà mai se in quel periodo la sua fede vacillò, oppure ciò
che scriveva era tipico del suo rapporto con il Signore.
Si esprimeva in questi termini: “Paura. Solo paura. Sono un povero
cieco che nulla percepisce di questo strano mondo di Dio, nel quale dovrei essere un
segno e un maestro. Gli altri guardano a me. Che devo dire? Che nulla
capisco io stesso? Sono alle soglie della paura senza speranze. Alle
soglie dell'assenza di pace. E Dio attende! E lei piange e si lamenta.
Non con Dio! Come si affronta questo terribile momento nel quale
questa nostra sorella, la più giovane è stata ed è maestra. E io vivo
di paura. Dovessi dire che vivo di nulla e di delusione, no! Vivo di
paura. Che bella costruzione dopo tanti anni! La paura. Paura di Dio!
E non l'ho fatto io. Che strabilianti momenti! O Dio, creatore del
cielo e della terra, nelle cui mani è la vita degli uomini, muoviti a
pietà. Ti prenda tenerezza di ciò che tu hai creato e non abbandoni.
La mia fede è che anche quando non ti vediamo tu sei con noi. E fatti
vedere. E la nostra debolezza. La nostra paura. La nostra solitudine e
impotenza. Mostrati in questa circostanza e io costruirò in maniera
diversa i giorni che mi restano. Non abbandonarci del tutto. Dacci un
po' di coraggio. Dacci un po' di forza. Come possiamo resistere
ancora! Che vuoi più da noi. Dico da noi per dire: da lei. Soffre
tanto. E basta! Vedi che ho paura anche di parlare. Stai costruendo
una paura dalla quale non guarirò più. Ricordati di Tuo figlio, Gesù,
che hai dato per noi. Quaerens me, sedisti lassus, redemisti crucem
passus, tantus labor non sit cassus. Non so dirti nulla più. Non
vuole, non può essere superbia la mia. Ma che ho detto a fare tante
messe. Parlato di te, con te, per te. E ora, dopo di aver dato una
vita; spesa male lo so ma non è tutta colpa mia dopo tanto adesso mi
vedo venir meno il terreno sotto i piedi. Ho creduto, ho sperato, ho
detto agli altri di credere, di sperare. Che altro devo fare. Oggi non
è una sorella che scompare, è un mondo, una impostazione di vita, una
scelta che svanisce. Vivevo per questo. Oggi è la smentita. Smentita
per chi soffre con me e fidava nelle mie parole. Che si sono mostrate
solo parole. E tu? Stai a guardare?
Prendo a caso nel breviario di oggi: svegliati, perché dormi, Signore?
Destati e non respingerci per sempre. Perché nascondi il tuo volto?
Dimentichi la nostra miseria e oppressione. Perché siamo prostrati
nella polvere. Il nostro corpo è steso a terra. Sorgi e vieni in
nostro aiuto. Salvaci per la tua misericordia. Per te! O Dio. E così
continuo ancora a sperare. In che cosa? No! in nulla! in Te.
O Vergine Santa. E tu che stai a fare? Ah quel Lourdes! Mi meritavo
tanto? Forse sì! Ma adesso basta! Madre dei peccatori! Ma adesso
basta. Mostra di essere quella madre che sei!”. (Da “ Don Umberto un
prete così” di don Peppino Centore)
Don Umberto muore il giorno dopo la morte della sorella, il 16 agosto
del 1982.
Nel suo “La giornata comincia la sera” aveva scritto:
APPUNTI PER UN ELOGIO FUNEBRE DI UN PRETE QUALUNQUE.
È morto con la stessa umiltà sovrana con cui celebrava la messa. Il
suo corpo mortale fu l'offerta del suo sacrificio. Insieme al corpo di
Cristo, col quale condivise lo stesso sacerdozio, la stessa croce, gli
stessi pensieri, le stesse ansie, la stessa vita.
Predicò ed edificò l'avvento di Dio in maniera personale, come
personale è il modo di accettare Dio in ognuno di noi.
Ognuno di noi ha dei difetti. In lui non ne vedemmo mai. Erano gli
eccessi gli unici aspetti sconcertanti del suo temperamento. La carità
fu incontrollata, la passione impetuosa, la generosità imprevedibile,
la inconsapevolezza del limite delle sue forze fisiche infantile.
Fu così che andò verso la messa che celebrò con la sua morte, verso la
finale offerta di cui il Signore lo ha creduto degno solo quando il
suo cuore non aveva più nulla da offrire.
Nella sua vita non fece grandi cose, ma desiderò di farne moltissime:
avrebbe voluto essere il servo di tutti, avere sempre le tasche vuote,
essere circondato dall'affetto di mille poveri. Ma non gli fu dato.
Ora non lo vedrete più: una malattia terribile e annosa, sfuggita a
ogni umana saggezza lo ha stroncato. È malattia rara e senza nome. La
malattia della sproporzione fra quello che si desidera fare e quello
che sei costretto a fare dalle circostanze, quelle di dentro e quelle
di fuori, quelle create da te e quelle create dagli altri e quelle non
create né da te né dagli altri.
Oggi non è morto un prete solo; ma molti. Tanti quanti egli desiderava
di essere. Quando si accorse dell'avarizia della realtà, cominciò a
vivere in mezzo a noi come uno straniero. Cominciò a familiarizzare
con la morte. E la sua immagine, anziché atterrirlo, gli era dolce e
amica. E, benché non fosse vecchio (in lui l'uomo vecchio non c'era),
più la guardava in volto, più la sua vista si acutizzava a guardare
oltre le apparenze.
Non che il distacco non lo deprimesse: egli sapeva bene di stare su
una croce e a tutti quelli che gli domandavano come si sta crocifissi
ha sempre risposto: “Meglio”.
Negli ultimi giorni la visione dell'infinito non lo abbagliò, ma
allargò insospettatamente la sua anima, anche se, quando scoccò la sua
ora, prima di abbandonare le frontiere della miseria, pianse.
Aveva tanto amato la sua miseria!
Poi è entrato con Cristo, loro due soli, non sappiamo dove. Siamo
rimasti a guardare.
Provammo disagio a chiudergli gli occhi, ostinatamente fissi a
guardare oltre le apparenze.
Si è allontanato lasciandoci la sensazione che la vita è come il
viaggio breve di chi deve attraversare un fiume. Sulla sponda lontana
vediamo solo apparenze e ombre, sentiamo solo suoni e voci che per la
lontananza ci sembrano sofferenze e lamenti. Ma, quando ci
avviciniamo, allora cominciamo a distinguere volti e a percepire voci
e solo alla fine del viaggio ci accorgiamo che su quella sponda tanto
sospetta e temuta è l'amore.
Oggi è nell'eterno. A noi ha lasciato solo il mite ricordo di un
sacerdote di Cristo e della Chiesa che fece poco, desiderò molto, amò
sempre.
Forse era quello che, alla sua morte, don Umberto avrebbe voluto
ascoltare: fu accontentato perché l’elogio funebre fatto
dall’Arcivescovo di Capua mons. Luigi Diligenza si basò, appunto, su
quanto aveva scritto don Umberto per “l’elogio funebre di un prete
qualunque”.
Ma, in conclusione, di cosa è morto don Umberto? Evidentemente si può
anche morire di dolore!
DON UMBERTO D'AQUINO