Fin dalla fine delle guerre sannitiche (290 a. C.) Capua era rimasta
fedele alleata di Roma, ricevendone in cambio l'ascrizione alla tribù
Falerna e la cittadinanza romana per gli aristocratici; aveva
conservato le proprie istituzioni, la lingua, i costumi e continuato
proficuamente a praticare la sua economia basata sull'agricoltura, sui
commerci e sull'artigianato.
Dopo la sconfitta di Canne (216 a. C.) il partito popolare elesse
un senato favorevole ad Annibale che trovò nella città e nel suo
territorio rifugio sicuro e prezioso rifornimento durante gli anni
delle estenuanti scaramucce che precedettero la conclusione della II
guerra punica.
Nel 211 a. C., dopo un lungo assedio che aveva comportato anche lo
scavo di un fossato tutto intorno alla città da parte degli
assalitori, Capua fu conquistata e pesantemente punita: i senatori
furono messi a morte, la città fu privata di tutti i diritti e
assoggettata ad un praefectus Capuam Cumas, il territorio fu
espropriato divenendo ager publicus e fu diviso in pagi per essere
venduto a cittadini romani. Ma già nel 173 a. C. molta terra era
tornata ai precedenti proprietari.
Per far fronte a questo problema il senato di Roma inviò il console
L. Postumio Albino perché ridefinisse i confini dei terreni pubblici;
nel 165 a. C. il pretore P. Cornelio Lentulo, inviato dal senato
romano, comprò i terreni privati, divise quelli pubblici in piccoli
poderi, che diede in affitto, stabilì i prezzi da pagare per le
proprietà affittate a privati e infine registrò le terre centuriate in
una tavola bronzea.
Nonostante il fallimento dei tentativi di Caio Gracco di ridarle il
diritto di cittadinanza, Capua e i centri da essa dipendenti (sono
noti i nomi di due pagi il Tifatinus e l'Herculaneus), amministrati
dai magistri Campani, vivevano un periodo di prosperità e ricchezza,
basato soprattutto sulla produzione di unguenti e profumi, di bronzi e
di ceramica e sul loro commercio favorito dall'apertura di nuove vie
di traffico sia terrestre che marittimo. Erano per lo più campani i
negotiatores italici che avevano contribuito a fare di Delo il più
grosso centro commerciale dell'Egeo nel quale si trattava, tra
l'altro, l'acquisto di schiavi il cui arrivo in Italia favorì da per
tutto la costruzione di edifici pubblici e privati.
A Capua vennero eretti in questo periodo un teatro su terrapieno,
la sede di un collegium mercatorum, un portico nel pagus Herculaneus,
l'anfiteatro da cui prenderà le mosse la rivolta di Spartaco nel 73 a.
C., un complesso termale nella parte bassa del santuario di Diana
Tifatina.
La solidità economica raggiunta permise alla città di superare
indenne il periodo della rivolta servile del 104 a. C. e della guerra
sociale nell'89 a. C.; pochi anni dopo, Caio Mario e Cinna dedussero a
Capua una colonia che così riacquistò il diritto di cittadinanza;
ancora protagonista degli episodi della guerra civile in quanto Silla
nell'83 si accampò presso il santuario di Diana Tifatina prima dello
scontro con Norbano, divenne finalmente Colonia Julia Felix nel 59 a.
C. quando Cesare, applicando la legge agraria di Q. Servilio Rullo
distribuì il territorio dell'ager campanus a 20.000 coloni.
Capua possedeva in origine, fra le città italiche, un territorio
vastissimo: l'ager Campanus. Esso si estendeva, verso nord, fino alle
pendici del monte Massico e includeva anche l'ager Falernus, che
rimase proprietà della città almeno fino al 338 a. C. quando, entrata
a far parte della confederazione romana, dovette cedere quel
territorio a Roma. Tra i provvedimenti punitivi contro Capua, presi
dal governo romano nel 211 a. C. durante la II guerra punica a causa
dell'alleanza della città con Annibale, il più grave fu senza dubbio
l'espropriazione dell'intero ager Campanus, la cui estensione doveva
stimarsi, molto verosimilmente, intorno ai 200.000 iugeri, che fu
dichiarato ager publicus. Nonostante questo provvedimento, poiché nel
173 a. C. molta terra era tornata in mano ai privati Roma cercò di
porre rimedio alle trasgressioni provvedendo alla "centuriazione" del
territorio che venne diviso in appezzamenti di 20 actus x 20 (m. 715 x
715) attraversati da strade incrociantesi ad angolo retto. Durante il
periodo graccano, parte della piana Campana doveva essere ancora in
mano di occupanti abusivi e il senato non riusciva ad amministrare le
terre di sua pertinenza sì che nel 130 a. C. una commissione composta
da Gaio Gracco, Appio Claudio e Licinio Grasso tresviri agris
iudicandis adsignandis, provvide alla identificazione e delimitazione
dei terreni pubblici. Testimone di tali lavori è il cippo rinvenuto a
S. Angelo in Formis, tra il primo decumano a sinistra e l'undicesimo
cardine citra con i nomi dei triumviri. Il ritrovamento del termine
graccano ha permesso di fissare due fondamentali punti: in primo luogo
abbiamo la conferma delle informazioni che ci vengono da due scrittori
del 5Corpus Agrimensorum Romanorum, Igino Gromatico e Frontino.
Entrambi affermano che nell'ager Campanus il cardine e il decumano
erano invertiti: il cardine andava in direzione est-ovest e il
decumano nord- sud, contrariamente a quanto avviene di solito. Questo
orientamento, con molta probabilità, era stato dettato sia dalla
configurazione del terreno che dalla preesistenza della città di Capua
attraversata dalla Via Appia con la quale fu fatto coincidere proprio
per il tratto urbano, uno dei cardini centuriali. Il secondo punto è
dato dalla identiflcazione del decumano massimo con l'odierna strada
che conduce da S. Angelo in Formis a S. Maria Capua Vetere e del
cardine massimo con la strada che dai pressi di Maddaloni (antica
Calatia) conduce a Capodrise, proseguendo fino ad incontrare la via S.
Maria Capua Vetere- Aversa. Il decumano in questo modo risulta sulla
direttrice Capua-Atella mentre il cardine è in relazione a Calatia, in
dipendenza dunque delle tre città legate alla centuriazione. Un
ulteriore termine della centuriazione, ubicato all'angolo tra il sesto
decumano a est di quello massimo e il quarto cardine a sud del cardo
massimo, è stato rinvenuto a sud dell'abitato di Marcianise. Il cippo,
risalente probabilmente ad età graccana, rientra nella categoria dei
limites muti, cioè senza iscrizioni, che potevano indicare gli angoli
delle centurie, ad esclusione di quelli posti lungo il decumano e il
cardine massimi, e le divisioni interne delle centurie stesse.
Indagini recentissime condotte nel territorio della moderna Capua
hanno messo in luce i resti di almeno due fattorie risalenti, nelle
prime fasi costruttive, al II secolo a. C. e di un tratto di asse
viario orientato nord- sud, seguito per la lunghezza di m 40 ca. e
largo m 300, costituito da una massicciata di frammenti laterizi e di
tufo, perfettamente rientrante nella maglia centuriale.
Fra le stele funerarie rinvenute a Capua e nel suo territorio il
tipo più diffuso è certamente quello ad edicola. Questo, derivante
dalle stele attiche del periodo classico, ebbe un ampio sviluppo
nell'area campana e soprattutto a Capua. Da qui si diffuse verso nord
lungo il litorale adriatico mentre è completamente assente sia in
Etruria che a Roma dove ebbero maggiore fortuna gli altari funerari o
i rilievi policonici inseriti nei monumenti funerari.
Le stele capuane, genericamente databili al periodo repubblicano,
sono sufficientemente numerose e ricche di elementi epigrafici e
storico- artistici per essere utilizzate come fonte di informazioni
circa il periodo in cui furono realizzate. Tuttavia flno al 1970 circa
erano state oggetto di studio soprattutto per i loro aspetti artistici
e completamente trascurate dal punto di vista storico e sociale. ll
tipo più comune delle stele capuane presenta il corpo centrale
occupato dalla rappresentazione del defunto, solitamente in compagnia
della moglie, dei figli o di altri membri della famiglia. Le figure
sono realizzate in alto rilievo e racchiuse in un registro di forma
rettangolare.
I ritratti dei defunti in maggioranza composti in una rigida
frontalità (non mancano comunque eccezioni come ad esempio nelle stele
degli Equitii, rinvenuta a S. Angelo in Formis, dove uno dei quattro
personaggi è raffigurato di fianco), vengono rappresentati sia fino
all'altezza dei fianchi, sia interi. La maggior parte delle figure
presenta un braccio (generalmente quello destro ma anche in questo
caso non mancano eccezioni) piegato e coperto dal mantello. La mano è
posta sull'addome o più raramente sul petto, nell'atto di serrare un
lembo del mantello stesso, mentre il braccio sinistro è steso lungo il
fianco. Le figure panneggiate delle stele funerarie derivano
direttamente dai tipi iconografici della grande statuaria romana di
tradizione ellenistica. Infatti gli uomini, in tunica e toga, sono
raffigurati nelle posizioni tipiche delle statue dei togati, mentre le
donne, in tunica e palla (il lungo manto che avvolge la figura)
compaiono nello schema detto della pudicitia, col capo velato. Alcune
volte nelle stele capuane immediatamente al di sotto del registro
principale compare un piccolo pannello rettangolare in bassorilievo,
con scene di vita quotidiana. Uno degli esempi più interessanti è dato
dalle stele di M. Publilius M. l. Satyr dove è rappresentata la
vendita di uno schiavo. I registri con le raffigurazioni dei defunti
sono "racchiusi" in una edicola costituita da un basamento sormontato
da due pilastri con capitello corinzio o con figure fantastiche, che
sorreggono un timpano. Spesso al di sopra del timpano possono esservi
degli acroteri.
Dalle iscrizioni delle stele capuane emergono anche numerosi dati
di storia sociale ed economica, infatti, esse attestano, sia nella
città che nel territorio, la presenza di una modesta popolazione
composta di coloni, artigiani ed artisti, che spesso menzionano con
orgoglio i prodotti del proprio lavoro. Si tratta della plebs optima
et modestissima di cui parla Cicerone oppure della plebe menzionata da
Livio, che non senza anacronismi dichiara che essa venne mantenuta a
Capua dopo il 211 a. C. per servire gli interessi di Roma.
L'impianto urbano sino ad oggi documentato dalle ricerche risponde
ad uno schema articolato in isolati rettangolari di diverse
dimensioni, disposti per strigas, è ancora riconoscibile nella parte
centrale della città, senza una preponderanza di due assi rispetto
agli altri e rispecchia verosimilmente l'assetto di età romana.
Una maglia di tale schema è stata ricostruita con sicurezza a
seguito di scavi recenti. Si tratta di un isolato di m 200 x m 250,
suddiviso da una strada orientata est-ovest, posta in luce alla
traversa di via Torre, in due rettangoli di m 95 x m 250 e m 105 x m
250. L'isolato è delimitato dalle attuali vie Torre a nord, Vetraia a
sud, d'Angiò ad ovest. Il lato orientale della maglia è costituito
dall'antica strada che entrava in Capua da nord in prosecuzione
dell'asse della centuriazione che si dipartiva dal cippo rinvenuto in
località Calcarone, ai piedi del santuario di Diana Tifatina, e che
usciva dalla città in corrispondenza di via Mazzocchi, ove forse era
una porta, per proseguire poi nella via Atellana che conduceva ad
Atella.
E' inoltre sicuramente riconoscibile un'altra strada orientata
nord-sud, corrispondente alla moderna via Albana, che nel tratto
finale verso settentrione piega in direzione nord-ovest e confluisce
nella Via Dianae (in questo punto, molto probabilmente, doveva essere
situata un'altra porta) e verso sud, alla confluenza con la via
Saraceni, devia in direzione sud-ovest nel rettilineo corrispondente
alla Via Campana (Capua- Puteolis), in un punto in cui è possibile che
si aprisse un porta.
Le strade orientate est-ovest ancora riconoscibili sono cinque
(forse si può ricostruire anche il breve tratto di una sesta).
Quella ripresa dal tratto urbano dell'Appia non coincide con il
corso A. Moro, come comunemente è stato ritenuto, ma corre poco più a
nord rispetto all'attuale sede stradale. L'orientamento del tracciato
antico, che esce ad est in perfetto allineamento con la porta che si
apriva al bivio di S. Prisco, individuata nel 1972, è confermato, tra
l'altro, dal recente ritrovamento in via Porta S. Gennaro di una serie
di ambienti relativi ad una domus con tabernae sul fronte strada
allineate lungo il marciapiede che costeggia il tratto urbano
dell'Appia e dalla dislocazione dell'abitazione di P. Confuleius
Sabbio scoperta nel 1955.
Di questa abitazione sono stati individuati due ambienti con i
resti di un impianto di lavanderia, che conservano, in ottime
condizioni, il pavimento in opus signinum decorato di tessere bianche
e nere. Nella soglia della stanza più interna c'è un'iscrizione
beneaugurante, mentre nel tappeto verso sud della stessa stanza c'è la
lunga iscrizione con il nome del proprietario e dell'architetto P.
Confuleius P. M. 1. Sabbio sagarius / domum hanc ab solo usque ad
summum /fecit arcitecto T. Safinio T. F. Fal. Pollione (Publio
Confuleio Sabbione, liberto di Publio Marco, venditore di mantelli,
fece questa casa dalle fondamenta al tetto, con la guida
dell'architetto Tito Safinio Pollione, figlio di Tito della tribù
Falerna) databile alla prima metà del I sec. a.C.
Nell'area sud-occidentale, che attualmente mostra un aspetto
irregolare dipendente forse dall'assetto del borgo riabitato molto
dopo la distruzione saracena, fu individuato un tratto di via basolata
che correva in direzione nord/ovest - sud/est, coincidente con
l'orientamento della strada moderna, della quale non è possibile
conoscere il rapporto con il perimetro urbano e con lo schema viario
interno all'abitato di Capua.
Il santuario dedicato a Diana Tifatina, uno dei più celebri del
mondo romano, sorgeva a circa tre miglia e mezzo a nord est di Capua
antica, alle pendici del monte Tifata, allo sbocco in pianura del
fiume Volturno, in un luogo ameno, ricco di boschi e sorgenti
naturali.
Il santuario era strettamente legato al mito di fondazione di
Capua, all'eroe troiano Capys e alla cerva che lo aveva allattato, lì
onorata come ancella della dea.
L'antichità del luogo di culto dedicato ad una divinità della
natura selvaggia, sarebbe dimostrata tra l'altro, da alcune terrecotte
architettoniche di età arcaica rinvenute nelle vicinanze del santuario
stesso nel quale, come raccontavano i periegeti, erano pure
conservati, quali curiosità antiquarie, una coppa che si diceva fosse
appartenuta a Nestore ed un cranio di elefante, forse reliquia della
guerra annibalica.
Il santuario godette di grande fama soprattutto in età romana e
Silla, dopo la vittoria riportata su Norbano proprio alle pendici del
Tifata nell'83 a. C., volle rendere grazie alla dea che lo aveva
protetto assegnando a Diana Tifatina vasti possedimenti immobiliari e
le fonti salutari di cui la zona era ricca. L'elenco delle donazioni e
la pianta dei terreni di proprietà del santuario erano incisi su una
tavola di bronzo collocata all'interno della cella del tempio.
L'accatastamento delle proprietà, redatto sotto Augusto, fu confermato
da Vespasiano.
In età imperiale il culto di Diana Tifatina si diffuse ampiamente
nelle province ed iscrizioni dedicatorie sono state rinvenute anche in
Gallia e in Pannonia. Ancora nel IV secolo d. C. la dea era onorata
con iscrizioni votive, anche se a partire da quell'epoca le vicende
del tempio pagano cominciano ad intrecciarsi con quelle della basilica
cristiana dedicata a S. Michele Arcangelo che ad esso si sovrappose
alla fine del VI secolo.
La pianta del tempio è perfettamente ricostruibile grazie alla
conservazione del pavimento che era a mosaico nella cella priva di
adyton, e a canestro nella peristasi. Il pronao era molto profondo e
nel suo pavimento si conservano i resti dell'iscrizione dedicatoria
che ricorda rifacimenti del pavimento, delle colonne e di altre parti
dell'edificio, voluti nel 74 a. C. da dieci magistri. La fronte era
esastila, probabilmente 6 colonne si trovavano anche sui lati lunghi;
quelle attualmente riutilizzate nelle navate della chiesa appartengono
a restauri di età imperiale o ad un altro edificio del santuario.
Ben conservato, al di sotto della chiesa e in parte coperto dalla
scalinata d'ingresso, è il podio del quale sono state identificate due
fasi costruttive. Esso era stato realizzato tra la fine del IV e gli
inizi III secolo a. C. in opera quadrata con blocchi di tufo grigio su
uno sperone roccioso del monte Tifata che scendeva bruscamente verso
la pianura.
Le irregolarità del suolo ed i salti di quota, come hanno
dimostrato i saggi di scavo eseguiti alla fine degli anni '70 e nel
1993, erano stati eliminati mediante una colmata di calcare, breccia e
terra che aveva livellato il piano di calpestio rendendone possibile
la pavimentazione. In questa prima fase è possibile che il pavimento,
almeno quello esterno alla cella, fosse in cocciopesto. Tratti dello
stesso, infatti, sono stati rinvenuti in più punti al di sotto della
pavimentazione.a lastrine di marmo disposte "a canestro".
Al di sotto del pavimento cosmatesco della chiesa, nel saggio
effettuato nel 1993 davanti all'ingresso della sa grestia, si è posta
in luce parte del lato di fondo del podio antico, con cinque filari di
blocchi di tufo grigio uniti senza malta che si elevano per un'altezza
massima di m 2,20, fondato direttamente sulla roccia. Il muro è
rivestito di intonaco liscio giallastro con una fascia scura lungo la
parte alta e al di sopra una cornice di stucco liscia. La parte bassa
modanata presenta uno zoccolo sormontato da una scozia. Il perimetro
esterno del tempio, su questo lato, non era percorribile.
In età tardo-repubblicana il podio fu allungato di m 6 nella parte
posteriore, verso est, mediante muri in opera incerta, rinvenuti sia
sul lato nord sia su quello sud.
In un saggio eseguito nella cripta centrale è stato documentato il
muro di fondo del podio di questa fase, conservato per un'altezza di m
2. Costruito in opera incerta, si trova alla stessa quota di quello
della prima fase ed è stato anch'esso edificato direttamente sulla
roccia. Anche in questo caso, il perimetro esterno non era
percorribile. Il podio è rivestito di intonaco bianco fino alla
cornice inferiore, costituita da zoccolo, da scozia e toro.
Il rifacimento del tempio si colloca nella serie delle grandi
trasformazioni dei santuari tardo-repubblicani del Lazio e della
Campania ed il sistema di terrazze che si affacciava verso la pianura,
riconosciuto negli scavi davanti al sagrato della chiesa, e che
rendeva l'aspetto del lato anteriore del tempio molto diverso da
quello attuale ben si inquadra nella ricerca di effetti scenografici
di gusto prettamente ellenistico che influenzò la cultura dell'epoca.
All'interno della chiesa sono state poste in luce tombe medievali e
più tarde, scavate nei blocchi di tufo del podio antico, all'interno
delle quali sono state rinvenute medagline con immagini sacre (una,
ottagona, reca una preghiera ai Re Magi in latino), anellini, grani di
rosario, lembi di stoffe, frammenti di scarpe.
Il fondo Patturelli era ubicato appena fuori il tratto orientale
delle mura di Capua, quasi a mezza strada tra il monumento funerario
romano conosciuto come "Carceri Vecchie" e l'attuale località S.
Pasquale, lungo la Via Appia.
Nel 1845, mentre si effettuavano lavori di sterro di un muro di
cinta, il proprietario, Carlo Patturelli, rinvenne i resti di un
edificio sacro e le famose sculture femminili in tufo con bambini in
fasce, note come Matres Matutae. La preoccupazione che le opere
edilizie venissero interrotte dalle autorità ebbe il sopravvento e il
Patturelli fece subito reinterrare ciò che aveva trovato.
Nel 1873 si ripresero i lavori di scavo con intenti "scientifici".
In effetti, però, non si fece altro che riscavare quanto era stato già
scavato, in gran parte distrutto e riseppellito nel 1845 con
l'intento, essenzialmente, di saccheggiare gli oggetti più belli e
significativi, al fine di rivenderli sul mercato antiquario europeo o
di accrescere collezioni private.
Alcuni elementi architettonici del santuario giacquero per molti
anni sparsi intorno al Casino Patturelli, fino a quando nel 1876 una
piccola parte di essi fu trasferita nel Museo Campano: un capitello
ionico dall'echino liscio e pesante, databile intorno alla fine del IV
secolo a. C.; pochi resti pertinenti alla base del podio e alla sua
cornice a dentelli. In assenza di una documentazione grafica e di
descrizioni, si conosce pochissimo degli edifici, dell'organizzazione
dello spazio, delle fasi del santuario, anche se la grande quantità di
terrecotte architettoniche raccolte testimonia una continuità di vita
nell'area sacra a partire dalla prima metà del VI secolo a. C. o dagli
ultimi decenni del VII secolo a. C., fino II secolo a. C.. H. Koch,
che per primo (1907) affrontò lo studio dei materiali recuperati e
delle strutture conservate, ipotizzò che si trattasse di un altare
monumentale in tufo, a pianta rettangolare, costituito da un podio
preceduto da una gradinata di dodici scalini fiancheggiata da
pilastrini sormontati da sfingi alate, sulla sommità del podio era
collocata un'edicola che a sua volta conteneva un altare ed una
statuetta.
All'interno del santuario, disposte in modo da essere visibili solo
frontalmente (la faccia posteriore si presenta per lo più scabra,
quasi non lavorata), in parte infisse nel suolo e collocate forse una
accanto all'altra lungo una parete (ma non si hanno dati sicuri in
merito) erano le oltre 160 Matres. Rappresentazioni tanto lontane
dall'iconografia classica, che dovettero destare notevole impressione
e disagio negli scopritori e nei primi studiosi che ebbero modo di
osservarle se si arrivò a definirle "tozze e mostruose sì che sembran
rospi" (Mancini).
Le Matres, scolpite nel tufo grigio del monte Tifata, riproducono
tutte, con scarse varianti, una figura femminile seduta su un sedile
più o meno elaborato, recante in grembo uno o più bambini in fasce
fino ad un numero massimo di dodici. Von Duhn affermava di avere
personalmente visto un esemplare con 26 infanti. Il complesso delle
Matres, che costituisce un unicum nel suo genere, copre un arco di
tempo molto vasto anche se un cospicuo gruppo di sculture appare di
difficile inquadramento cronologico.
Assai dibattuta è l'identificazione della divinità o delle divinità
- venerata nell'area sacra del fondo Patturelli: una divinità che nel
suo seno materno riceve e tutela il morto (von Duhn); una triade di
divinità di incerta identificazione, forse Iuppiter Flagius, Iovia
Damusa e Vesolia ( Beloch); Damia, divinità di origine greca il cui
culto era rigidamente riservato alle donne, che presenta parecchi
punti di contatto con Demetra (Adriani); Venus Libitina (Coarelli).
Oggetto di discussione è anche l'interpretazione delle "Matres",
nelle quali si è voluto riconoscere ora la rappresentazione della
divinità, ora quella dell'offerente che dona alla dea la propria
immagine con quanti figli fino ad allora aveva generati (Adriani), ora
la donna che, dopo i parti, rende grazie alla divinità che l'ha
assistita e che le ha concesso figli numerosi e sani, vera ricchezza
in una società contadina che trae la propria prosperità dalla terra
(R. Bianchi Bandinelli).
Saggi eseguiti nel 1995 hanno permesso di individuare parte del
sito del santuario riconosciuto oltre che dalla cospicua quantità di
terrecotte architettoniche, di statuine votive e di vasetti
miniaturistici, dal ritrovamento di una Madre di tufo e di una sfinge.
L'area esplorata fino alla profondità di 6 m dall'attuale piano
stradale era stata già sconvolta in età romana. Frammenti di opera
reticolata e di intonaci sono stati trovati sul terreno vergine,
assieme a materiali più antichi di tre o quattro secoli. Lungo il
limite sud della zona scavata è stato trovato un muro in blocchi di
tufo a doppia cortina la cui faccia a vista era verso sud; il muro,
del quale rimaneva una sola assise era stato coperto da fango, in
parte poi asportato per collocare tombe alla cappuccina databili al I
secolo d. C.